È tardi, è sempre dannatamente tardi la mattina. Tardi per un po’ di rossetto, tardi per bere un caffè né caldo né freddo, tardi per un bacio veloce, tiepido più del caffè.
La mia vecchia automobile mi aspetta, come tutte le mattine, giù in strada ed io la faccio attendere un minuto di troppo. Una sciocchezza. No, non lo è. Quel minuto rubato per vanità di rossetto, per golosità di una fetta imburrata o per un ritorno di romanticismo dei primi mesi – quando fare colazione insieme era un diritto di natura e non un obbligo riservato ai week-end – lo pago sempre molto caro. Quei sessanta secondi presi alla vita, devo restituirli in qualche modo. Non posso farla franca a lungo. Quella manciata di attimi mi fa puntualmente perdere il semaforo verde all’ultimo incrocio che mi separa dall’ufficio. Ma questa volta non voglio lasciarmelo sfuggire, non mi farò fregare ancora.
Sono sul rettilineo che termina in quel dannato incrocio; il semaforo è verde, posso farcela, devo farcela. Spingo sull’acceleratore, sterzo con forza a destra e a sinistra, accelero ancora. Terza, poi quarta, poi terza: questa volta è quella buona.
Arancione.
Azzardo? Sposto la leva del cambio, il motore risponde come se scorresse colla nei pistoni, pasticcio con i pedali, li spingo, li lascio, specchietto. Roba di poco tempo, un’occhiata solo per controllare lo spazio di frenata. Ora sono ferma, in prima fila, ad un passo dalle strisce pedonali.
Rosso.
Mi appoggio al sedile come per la prima volta. Chiudo gli occhi, li riapro. Mi trovo in una sala di un museo d’arte moderna, molto moderna. Direi quasi contemporanea.
Osservo il quadro.
Al centro un vecchio di profilo, con un ombrello aggrappato alla piega del gomito, avanza trascinando la sua stanchezza. Ha il corpo curvato in avanti e la fronte che punta a terra. Non si accorge di nulla, il suo sguardo è rivolto dentro di lui, alla ricerca di un nome o forse di una data che gli sfugge da tempo. Di fronte a lui, sulla stessa traiettoria, una donna grassa, a piccoli passi veloci, lo sta per travolgere. Parla con qualcuno che le sta accanto, non riesco a vederlo, ma deve essere una persona piccola e mite. Parla solo lei muovendo ritmicamente la testa verso destra, quando va a capo di frase.
Alla mia sinistra, c’è un cane legato ad una corda, attorcigliata alla mano di una ragazza carina; lei con l’altra tiene una borsa di lana colorata. Corre dietro il cane e si lascia trasportare: la borsa la segue fedele. Dietro di lei due bambini, schiacciati sotto zaini ingombranti, non sembrano accorgersene perché avanzano a piccoli saltelli, dandosi spinte alternate. A quello magro gli cade un pacchetto che aveva in mano, forse la merenda pomeridiana. Subito l’altro, infilando la punta del piede sotto un lato del pacchetto, gli assesta un colpetto verso l’alto. L’involucro si solleva da terra di quel tanto perché il bambino possa palleggiarci con maestria, finché gli sferra un calcio al volo scagliando, quello che doveva essere un panino, fuori dal quadro.
Dall’altra parte una coppia ferma si bacia e si bacia. Lei è più alta di lui, quasi lo avvolge nel suo cappotto tabacco. Lui le tiene la testa per paura che le sfugga. Sono buffi, sono romantici. Li sfiora, senza vederli, un uomo distinto, con una valigetta di cuoio in una mano e il soprabito poggiato dal rovescio sul braccio opposto. Ha un’espressione contrariata e parla a voce alta. Si arrabbia, sostiene che non può essere sempre lui a risolvere i problemi degli altri, che è ora che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Ha un bottone nero incastrato nell’orecchio e un filo che da lì raggiunge l’incrocio della sua giacca per sparirne all’interno. Sembra una radio dimenticata accesa: qualcuno dovrebbe staccargli la spina.
Si volta a guardarlo un giovane, avrà più o meno vent’anni, una capigliatura crespa e abbondante, tenuta a freno da un cappello colorato. Ha un passo sicuro ma controllato, come se non poggiasse mai un piede a caso, ma tutto fosse già prestabilito. Anche lui parla a voce alta, ha tante cose da raccontare al suo amico e il suo amico tanto da chiedere. Il giovane ha la mano del suo amico sulla spalla. Una mano leggera, ma che lo afferra saldamente. Camminano l’uno accanto all’altro, senza fretta. Avanzano all’unisono, come se fili invisibili collegassero ogni giuntura dei loro corpi: sembrano una coppia di tip tap. Il suo amico porta occhiali scuri, ma oggi è una giornata senza sole.
Davanti a loro appare una bambina, sottraendo i due ballerini alla mia vista. Ha un cartello in mano. C’è scritto qualcosa che non arrivo a leggere. Sembra più vicina degli altri; forse potrei toccarla allungando un braccio. Si fa più nitida. Ora riesco a leggere il suo cartello: “Cinque fratelli piccoli. Ho fame. Aiutatemi”. Diventa più grande, così grande che il quadro scompare alle sue spalle.
Un rumore secco sul finestrino, mi volto. Il viso invecchiato della bambina mi chiede qualcosa. Il suo cartello è appiccicato al vetro.
Il clacson di quello dietro inizia a strillare, si unisce al coro quello dopo e quello ancora più in fondo fino all’ultimo della fila. Non sa nemmeno lui perché suona, ne sono sicura, visto che è talmente lontano da non riuscire a distinguere il semaforo.
Verde.