La correspondance

« Lorsque vous écrivez une lettre, Prince, ou un message, quoi que ce soit que vous adressez à quelqu’un, lorsque vous l’avez terminé, que vous en êtes satisfait, demandez-vous toujours si vous pourriez l’envoyer à quelqu’un d’autre. Si vous n’auriez qu’à changer le nom, l’adresse. Si oui, oubliez cette lettre. Çà n’en est pas une. Vous racontez votre vie, Prince, vous n’écrivez pas à quelqu’un. Recommences ou abandonnez.

Lorsque vous serez bien familier de cette pratique, que plus jamais vous n’enverrez de lettres qui n’en sont pas, et cela prendra du temps, une décision s’ouvrira à vous. Pesez-la avant de la prendre car elle est de conséquence. Mais vous la soupçonnez déjà, n’est-ce pas. Déjà, vous commencez à vous dire : Et si j’agissais de mème avec mes paroles ?

Imaginez, Prince. À chaque phrase que vous allez dire, que vous formulez, si vous vous demandiez : Pourrais-je la dire en ce même moment à quelqu’un d’autre ? Et si, au cas où effectivement vous le pourriez, vous ne la disiez pas. Et si vous vous taisiez…

Rares seraient sans doute vos paroles.

Mais il peut se passer autre chose, mon cher Prince. Il peut se passer qu’en changeant le nom, l’adresse, ou la personne, vous vous rendiez compte par hasard que c’était à quelqu’un d’autre que vous étiez sur le point d’écrire, ou de parler. E qu’une fois ce nouveau nom, cette nouvelle adresse, cette nouvelle personne découverte, vous ne puissiez plus en changer.

Alors là, surtout, envoyez.

Alors là, surtout, parlez.

Car vous n’aurez jamais été si courageux. »

 

Extrait du Libraire de Régis de Sá Moreira

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Incroci

È tardi, è sempre dannatamente tardi la mattina. Tardi per un po’ di rossetto, tardi per bere un caffè né caldo né freddo, tardi per un bacio veloce, tiepido più del caffè.

La mia vecchia automobile mi aspetta, come tutte le mattine, giù in strada ed io la faccio attendere un minuto di troppo. Una sciocchezza. No, non lo è. Quel minuto rubato per vanità di rossetto, per golosità di una fetta imburrata o per un ritorno di romanticismo dei primi mesi – quando fare colazione insieme era un diritto di natura e non un obbligo riservato ai week-end – lo pago sempre molto caro. Quei sessanta secondi presi alla vita, devo restituirli in qualche modo. Non posso farla franca a lungo. Quella manciata di attimi mi fa puntualmente perdere il semaforo verde all’ultimo incrocio che mi separa dall’ufficio. Ma questa volta non voglio lasciarmelo sfuggire, non mi farò fregare ancora.

Sono sul rettilineo che termina in quel dannato incrocio; il semaforo è verde, posso farcela, devo farcela. Spingo sull’acceleratore, sterzo con forza a destra e a sinistra, accelero ancora. Terza, poi quarta, poi terza: questa volta è quella buona.

Arancione.

Azzardo? Sposto la leva del cambio, il motore risponde come se scorresse colla nei pistoni, pasticcio con i pedali, li spingo, li lascio, specchietto. Roba di poco tempo, un’occhiata solo per controllare lo spazio di frenata. Ora sono ferma, in prima fila, ad un passo dalle strisce pedonali.

Rosso.

Mi appoggio al sedile come per la prima volta. Chiudo gli occhi, li riapro. Mi trovo in una sala di un museo d’arte moderna, molto moderna. Direi quasi contemporanea.

Osservo il quadro.

Al centro un vecchio di profilo, con un ombrello aggrappato alla piega del gomito, avanza trascinando la sua stanchezza. Ha il corpo curvato in avanti e la fronte che punta a terra. Non si accorge di nulla, il suo sguardo è rivolto dentro di lui, alla ricerca di un nome o forse di una data che gli sfugge da tempo. Di fronte a lui, sulla stessa traiettoria, una donna grassa, a piccoli passi veloci, lo sta per travolgere. Parla con qualcuno che le sta accanto, non riesco a vederlo, ma deve essere una persona piccola e mite. Parla solo lei muovendo ritmicamente la testa verso destra, quando va a capo di frase.

Alla mia sinistra, c’è un cane legato ad una corda, attorcigliata alla mano di una ragazza carina; lei con l’altra tiene una borsa di lana colorata. Corre dietro il cane e si lascia trasportare: la borsa la segue fedele. Dietro di lei due bambini, schiacciati sotto zaini ingombranti, non sembrano accorgersene perché avanzano a piccoli saltelli, dandosi spinte alternate. A quello magro gli cade un pacchetto che aveva in mano, forse la merenda pomeridiana. Subito l’altro, infilando la punta del piede sotto un lato del pacchetto, gli assesta un colpetto verso l’alto. L’involucro si solleva da terra di quel tanto perché il bambino possa palleggiarci con maestria, finché gli sferra un calcio al volo scagliando, quello che doveva essere un panino, fuori dal quadro.

Dall’altra parte una coppia ferma si bacia e si bacia. Lei è più alta di lui, quasi lo avvolge nel suo cappotto tabacco. Lui le tiene la testa per paura che le sfugga. Sono buffi, sono romantici. Li sfiora, senza vederli, un uomo distinto, con una valigetta di cuoio in una mano e il soprabito poggiato dal rovescio sul braccio opposto. Ha un’espressione contrariata e parla a voce alta. Si arrabbia, sostiene che non può essere sempre lui a risolvere i problemi degli altri, che è ora che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Ha un bottone nero incastrato nell’orecchio e un filo che da lì raggiunge l’incrocio della sua giacca per sparirne all’interno. Sembra una radio dimenticata accesa: qualcuno dovrebbe staccargli la spina.

Si volta a guardarlo un giovane, avrà più o meno vent’anni, una capigliatura crespa e abbondante, tenuta a freno da un cappello colorato. Ha un passo sicuro ma controllato, come se non poggiasse mai un piede a caso, ma tutto fosse già prestabilito. Anche lui parla a voce alta, ha tante cose da raccontare al suo amico e il suo amico tanto da chiedere. Il giovane ha la mano del suo amico sulla spalla. Una mano leggera, ma che lo afferra saldamente. Camminano l’uno accanto all’altro, senza fretta. Avanzano all’unisono, come se fili invisibili collegassero ogni giuntura dei loro corpi: sembrano una coppia di tip tap. Il suo amico porta occhiali scuri, ma oggi è una giornata senza sole.

Davanti a loro appare una bambina, sottraendo i due ballerini alla mia vista. Ha un cartello in mano. C’è scritto qualcosa che non arrivo a leggere. Sembra più vicina degli altri; forse potrei toccarla allungando un braccio. Si fa più nitida. Ora riesco a leggere il suo cartello: “Cinque fratelli piccoli. Ho fame. Aiutatemi”. Diventa più grande, così grande che il quadro scompare alle sue spalle.

Un rumore secco sul finestrino, mi volto. Il viso invecchiato della bambina mi chiede qualcosa. Il suo cartello è appiccicato al vetro.

Il clacson di quello dietro inizia a strillare, si unisce al coro quello dopo e quello ancora più in fondo fino all’ultimo della fila. Non sa nemmeno lui perché suona, ne sono sicura, visto che è talmente lontano da non riuscire a distinguere il semaforo.

Verde.

The Family Man

La casa ha 3 piani, o come dici tu, due e mezzo contando il mezzanino.

Ti svegli presto, dal letto guardi compiaciuto il tuo bel giardino innevato, dove passi del tempo o meglio dove fai il tuo dovere di bravo giardiniere. La gatta dorme ai tuoi piedi, ti alzi senza fare rumore, la famiglia dorme ancora.

Scendi in cucina, la grande cucina americana dove ogni mattina prepari una macedonia di frutta per le tue figlie (ma perché tua moglie non mangia la mattina?). Hai messo il cappello del bravo cuoco, quello che cucina a colazione, pranzo e cena per far piacere a tutti, cuoco compreso. Sono 18 anni, gli anni di tua figlia maggiore, che ogni mattina prepari la macedonia. Mi chiedo se segui sempre lo stesso ordine nel tagliare la frutta o se a volte in uno slancio di vitalità tagli la banana prima della mela; a proposito, le mele sono sempre quelle rosse o ti concedi anche le gialle e le verdi? Comunque, dopo mezzora di duro lavoro, la colazione è pronta e la famiglia comincia a fare la sua apparizione in cucina.

Sei il primo a uscire, con la bici, per andare al lavoro. Tua moglie non esce prima delle dieci, altrimenti come farebbe a restare al lavoro fino alle nove di sera? E a lavorare il sabato e anche la domenica se tutto va bene. Una vera professionista, una donna-manager, anzi imprenditrice di un’azienda di comunicazione e pubblicità che vale…non ricordo più quanti milioni di euro. Quando le cifre hanno troppi zeri ho la tendenza a dimenticarle perché è come se mi parlassero degli UFO, banconote volanti non identificate.

Ma torniamo a te. Sulla tua bici hai attraversato la città per arrivare alla grande multinazionale dove tutti si salutano sorridenti, anche quando hanno il mal di denti. Ho una carie, che bello! Il mio lavoro fa schifo, viva l’azienda! Mia moglie mi ha lasciato, profitto, profitto, profitto!

Qui sei il re, il maschio agognato, invidiato dai suoi simili e desiderato dalle femmine, giovani e vecchie, della grande multinazionale. Ogni giorno sfilano nel tuo ufficio per una battuta, un consiglio, un caffè, un’occhiata al bel maschione. E tu ami le donne, o meglio le desideri, tutte o quasi. Diciamo che hai una strana preferenza per le giovani, magre, carine, possibilmente brune e disponibili. Così la tua giornata va avanti tra un flirt e l’altro, leggera, spensierata, divertente.

FUN, tutto è divertimento. La parola d’ordine del belloccio è divertirsi.

Per questo da 25 anni hai intrapreso una doppia vita, puro divertimento, grandi risate e pacche sulle spalle. Venticinque anni di matrimonio e altrettanti di doppia vita. La moglie, le figlie, la casa, il nonno, la famiglia, gli amici e…le avventure. Cosa c’è di più facile in una città dove il ménage à trois è un’istituzione da prima della rivoluzione sessuale, ma che dico, da prima della rivoluzione francese. Liberté, égalité et cocufié!

Però, attenzione, non si tratta di solo sesso, tu ti innamori, sempre, di tutte. Perché quello di cui hai bisogno e che ti manca è il sentimento, la passione, il calore umano, un’affinità ricambiata…insomma quello che non trovi più nel tuo matrimonio o che in realtà non c’è mai stato.

Ti sei sposato, dicendoti “perché no?”, era la tua migliore amica, non sei mai stato innamorato di lei ma poi con il passar del tempo non siete più nemmeno amici. Vite separate e quindi doppia vita. Unico legame le figlie, e diciamo anche la casa, i parenti, gli amici, il nonno, l’eredità del nonno, insomma i soldi o meglio il comfort.

Amiam per comodo, per vanità”, canta Despina in Così fan tutte, e tu per tutte e due: l’amante per vanità e la moglie per comodità. Come darti torto.

La sera, svelto, vai via presto perché devi ancora infilare il cappello della brava casalinga. E allora di corsa a casa per uscire di nuovo a fare la spesa, far uscire il gatto, il nonno, e poi ai fornelli per preparare una buona cenetta, sempre inventiva, per la famigliola. A volte mangi con il nonno, se sei fortunato con il nonno e tua figlia più piccola, ricordandoti di mettere la cena in caldo per quando tua moglie tornerà stanca dal lavoro, getterà la sua 24ore sul divano, si toglierà gli stivali, lancerà il cappello da cowboy sull’attaccapanni e tuonerà con la sua voce soave: “che si mangia stasera?”

E poi, tutti ai posti di comando, ognuno al suo piano e mezzanino, nella sua stanza, davanti al suo televisore…che bella la famiglia!

Ma aspetta, oggi è martedì, il giorno della vanità.

Ti sei scelto un’amante ragionevole (ossia disponibile e non troppo lontana dall’ufficio). Così, nella pausa pranzo, senza dare nell’occhio e senza dover inventare scuse, puoi andare a farle visita, la cosiddetta visita del dottore. Due orette, il tempo di mangiare qualcosa preparata dalle sue dolci manine (perché lei è giovane, carina e magrina) e poi il meritato dessert. La frase prima di lasciarla “ti chiamo” e di nuovo in sella, il vento nei capelli, per tornare al lavoro con una ragione in più per farsele triturare dal proprio capo: io almeno scopo bene!

E quella sera tornerai sempre a casa, come sempre farai la spesa, farai uscire il gatto e il nonno, e via ai fornelli: la cenetta, tua moglie che rientra sempre più stanca, tutti ai loro posti davanti la tivvù… I am a family man.

Avevo sentito tante storie

Avevo sentito tante storie in proposito, ma nessuna mi colpì come quella che sto per raccontarvi. Penserete che siano tutte balle. Ma vi assicuro che quello che vi dirò è accaduto sul serio, è vita reale, è la mia vita.

Facciamo un passo indietro. Tre mesi fa, esattamente l’undici dicembre, l’incidente. Non fu colpa mia, ma accadde ugualmente; nonostante la mia volontà, nonostante i miei sogni e le mie speranze, la mia vita fece una brusca frenata fino a fermarsi ad uno stop. In realtà a frenare fu il mio motorino, un honda sky blu trasparente. Dicono che fu un rumore straziante, di animale impazzito che vede prossima la fine. Anche perché fu tutto inutile: la panda rossa la colpii in pieno. E’ bello morire con gli occhi pieni di rosso, pensai, prima che i miei si chiudessero.

“Signora, sono più di cinque ore che è qui. La prego, vada a casa, si riposi. Poi potrà tornare domani mattina.”

“Forse ha ragione, dottore. Sono a pezzi. Ma vorrei tanto essere qui, quando si sveglia”

E’ Marina, mia moglie.

Marina, sono qui. Sono già sveglio – urlo. Ma la mia voce non viene fuori. Rimane nella testa, non raggiunge neanche la gola, secca e immobile, a labbra serrate.

“Non si deve preoccupare per questo. Se ci saranno dei cambiamenti durante la notte, la avviseremo immediatamente”

“Va bene, altri cinque minuti da sola con lui e vado”

I passi del dottore, sono di suole morbide. La porta invece è di legno, invecchiato dallo scricchiolio. Sarà una di quelle porte verniciate di bianco, sottili e leggere, con la maniglia piccola d’ottone, da ospedale di una volta.

Ricordo l’incidente, lo schianto e poi, più niente. Mi avranno trasportato qui in stato d’incoscienza, ma ora sono tornato in me, sono di nuovo io, sono vivo. Perché non riesco a muovermi? Perché i miei occhi sono bloccati? Dov’é il mio corpo? Non mi sento più. Posso ascoltare il mondo esterno, ma non riesco a trovarmi.

Marina piange, è un pianto fatto di singhiozzi e sussulti del cuore. E’ un pianto che fa male. La sua sedia striscia sul pavimento, la sua gonna fruscia contro il letto. Deve essere in piedi, infatti le parole cascano dall’alto, piene, sonore. “Non abbandonarmi, tesoro. Ti prego, non lasciarmi sola.” I suoi passi indecisi si allontanano e si arrestano all’improvviso. “Aspettiamo un bambino”. Questa volta la sua voce mi arriva di rimbalzo, sbatte prima sul muro e poi torna indietro verso di me, smorzata, distante. Marina non si è neppure voltata, l’ha detto alla porta, con la mano sulla piccola maniglia, l’ha detto a se stessa, per farsi coraggio.

Marina, non andartene. Sono qui, ti ho sentito – strillano i miei pensieri. Sto piangendo, non sento le mie lacrime venire giù, ma so che sto piangendo di felicità e terrore.

E se la morte fosse questa? Se fosse una terribile, cosciente immobilità. Tra qualche giorno mi staccheranno la spina, mi infileranno in una cassa scura, e giù sottoterra a riflettere per l’eternità.

E’ entrato qualcuno, zoccoletti da infermiera. Fischietta una canzone che non conosco, e qua e là ci mette dentro una parolina inglese: baby, com’n, my love. Fa un rumore di ciancichìo di gomma da masticare, infatti ogni tanto si sente lo scoppiettare del palloncino. Si avvicina. Tintinnio di vetri, anzi di fiale. Forse mi starà facendo un’iniezione e io non sento niente di niente. “Buonanotte, bello”, mi lancia uscendo.

Mi desto con un sibilo doloroso che mi raggiunge da destra, sbatacchia un’anta e il frastuono mi colpisce in pieno. Sento il freddo, non la sua mano ghiacciata sulla pelle ma le sue sonorità. Di nuovo, zoccoletti da infermiera. Armeggia accanto al mio braccio. Che mi starà facendo? Forse un’altra iniezione.

“Ecco fatto. Non hai sentito niente, vero?” La sua risatina irritante è uno schiaffo indolore. Non mi tocca nemmeno. Stamattina sono di buon umore. Sento che sto ritornando in me, che mi riapproprio del mio corpo. Anche se non posso muovermi, né parlare mi sento fiducioso.

Mi arriva prima alla testa. Marina. Sento mia moglie arrivare, camminare lungo il corridoio. Sto impazzendo o cosa. No, è proprio lei, entra aprendo del tutto la porta che non cigola per la pressione decisa. “Ciao tesoro, sono io”

Amore, lo so che sei tu. Lo sapevo ancora prima che entrassi nella stanza. Ti ho riconosciuta. Non so se con la testa o con le orecchie, ma ti ho vista. Ti prego aiutami a svegliarmi. – Marina si fa più vicina, sento nitida la cadenza del suo respiro, il dolce schiocco delle sue labbra mi sfiora la fronte. Un brivido. Corre giù dalla fronte agli occhi, le palpebre sussultano, le ciglia si scollano. Bianco, e poi un sorriso rosa e due occhi liquidi che mi bagnano le guance.

E pensare che si raccontano tante storie sulle persone in coma. Una volta ritornate vanno in televisione, ospiti di quei programmi pomeridiani, a raccontare la loro esperienza. C’è quello che sostiene di aver visto una gran luce e che un caldo benessere lo avvolgeva, chi ti racconta di essersi risvegliato in un lungo e oscuro tunnel e che non trovava la fine fino a che…; chi si commuove affermando di aver rivisto sua madre che lo prendeva per mano e lo accompagnava all’uscita, e poi ci sono quelli rapiti dagli extraterrestri, omini piccoli con la testa a uovo e grandi occhi neri, neri; e c’è chi va dritto al cuore e giura di aver parlato con la Vergine Maria in persona, che lo ha rassicurato, dicendogli che non era ancora la sua ora.

Invece il coma non è altro che un incubo. Ci sei, ma nessuno lo sa. Sei l’ospite assente alla tua festa. L’impotenza dell’uomo non è mai stata così assordante.

Al supermercato

Quello che mi manca di più è non poter fare la spesa al supermercato. Ricordo che ce n’era uno, nuovo nuovo, quando abitavo ancora a casa mia. Aveva appena aperto e si era fatto tanta di quella pubblicità nella zona, attraverso quei foglietti colorati, che te li ritrovavi dappertutto: nella cassetta della posta ovviamente, ma anche sotto il tergicristallo, dentro le mani all’improvviso, nella fessura della porta di casa. Ho sempre amato fare la spesa e soprattutto andare in quei supermercati giganteschi che ora chiamano ipermercati. Quello sotto casa era abbastanza grande, non come quello vicino all’uscita del raccordo, ma qui dovevo solo scendere le scale ed attraversare la strada.
A me non è mai piaciuto andare al mercato, oppure ai vari negozietti di quartiere: dal macellaio, dal fruttivendolo, e poi al forno per il pane, e al bar per il latte, quanti giri e quante chiacchiere insignificanti, rifatte mille volte. A me non piace essere riconosciuta. Non piace che mi si facciano domande personali sulla mia famiglia, su come sta quello o quell’altra e non mi interessa sentirne da altri. Non mi piace la promiscuità di quartiere.

Invece al supermercato, è tutta un’altra cosa. Lì ti lasciano in pace con il tuo carrello a girare per ore, puoi fermarti dieci minuti davanti al frigo surgelati per riflettere su quante buste di spinaci il tuo freezer sarà in grado di accogliere, tornare indietro perché hai deciso che è meglio cucinare una bella bistecca con l’osso che la solita fettina rinsecchita, fare brusche inversioni a U perché hai adocchiato all’ultimo istante un super sconto nel banco latticini, andare in retromarcia lungo lo scaffale della pasta perché un solo passaggio non è stato sufficiente a scegliere il tipo di fusilli preferito da Mimmo, impicciarti anche di quegli scaffali dove vendono cose che a te non serviranno mai, tipo pannolini, cibo per cani, acqua minerale, gassata o effervescente naturale, ripassare per la terza volta nello stesso corridoio perché non ti va di chiedere dove hanno occultato il sale grosso – chissà perché lo nascondono sempre così bene, sarà un complotto di quello fino, stanco di essere solo un derivato –, abbandonare il carrello per ritrovarlo fedele al suo posto, certa che nessuno te lo porterà via, soppesare con lo sguardo tutti i pacchi di petti di pollo per capire qual’è quello con le fette più regolari, a misura di padella e infine, mettersi in fila scegliendo la coda più lunga per avere il tempo di farsi venire in mente qualcos’altro da aggiungere nel carrello, prima che sia troppo tardi e le operazioni di cassa ti risucchino nelle loro azioni forsennate da catena di montaggio.

E poi c’è un’altra ragione per cui vado volentieri al supermercato: osservare la gente senza essere notata.

Io li guardo tutti e ormai li riconosco. Ci sono i single, che non prendono il carrello ma il cestino, poi lo riempiono troppo e si maledicono con il pacco di zucchero sotto l’ascella e il mignolo intrappolato nel retino delle patate, ci sono le famiglie, con i bambini incastrati nei carrelli, che afferrano tutto quello che è a portata di mano, ci sono le donne-manager che comprano solo cose macrobiotiche, light, dietetiche, biologiche, naturali, della fattoria, del consorzio, ed escono dal supermercato dimagrite di due taglie, poi ci sono le vere massaie, con il carrello traboccante ma così ordinato, dove tutto è al suo posto, la carne con la carne, la verdura con la verdura accanto alla frutta con la frutta e i detersivi dentro le bustine trasparenti perché non si sa mai, e poi le cose pesanti sotto e quelle leggere sopra e in cima le uova naturalmente; ci sono i pensionati, mandati dalle mogli a fare la spesa, che controllano tutti i prezzi e le offerte speciali e gli sconti della tessera a punti, per paura che una volta tornati a casa, la moglie scopra, in fondo a una busta, un pacchetto di stuzzicadenti scampato allo sconto, ci sono le ragazze giovani, appena sposate, le riconosci perché sono felici di essere lì, se ne vanno in giro ore e ore senza lista della spesa e senza un ordine nel loro giro tra i corridoi, con il sorriso stampato in faccia e la sicurezza che qualsiasi cosa compreranno sarà gradita, e poi ci sono io, o meglio, c’ero io, con il mio carrello mediamente vuoto, che seguo l’ordine della mia lista della spesa, razionalmente identico alla disposizione degli scaffali del supermercato, e mi aggiro con calma osservando cibo e varia umanità.

Nel posto dove sono adesso, c’è un terrazzo molto grande in cima, da dove riesco a vedere la città in lontananza e più vicino alcune villette a schiera, colorate di un bel rosa antico, con un minuscolo prato inglese davanti e il garage per l’automobile di famiglia sul retro. L’edificio dove mi trovo non è una villetta a schiera e neanche una villa singola: è piuttosto una grande casa rettangolare che si sviluppa in altezza. Ogni piano ha un lungo corridoio e camere a destra e a sinistra, queste ultime però sono del personale. Noi non possiamo entrare là. Possiamo solo stare nella nostra stanza o andare in quelle grandi in comune: c’è n’è una per ogni piano. Sono tutte uguali, ci trovi la televisione, i tavoli da quattro per giocare a canasta, quello piccolo con la scacchiera, il divano con le riviste e la radio accanto. La televisione è sempre accesa, anche quando non la guarda nessuno. Per andare da un piano all’altro ci sono gli ascensori, sono molto grandi, infatti una volta ci ho visto dentro un vero letto, con un signore che sembrava molto malato. Ma mi hanno fatto subito uscire, io lì non ci potevo stare. Per prendere l’ascensore devi avere un buon motivo e prima lo devi comunicare a Suor Anna, la caposala. La mia stanza è singola, con due finestre piene di prato. Anche noi abbiamo un prato, ma è di tutti e ci sono le panchine per sedersi al sole. Ma qui le usano solo i visitatori perché noi ospiti siamo quasi tutti in sedia a rotelle.
Ora che sono qui, ho tanto tempo per pensare alle cose che amavo fare, quando abitavo a casa mia.