Al supermercato

Quello che mi manca di più è non poter fare la spesa al supermercato. Ricordo che ce n’era uno, nuovo nuovo, quando abitavo ancora a casa mia. Aveva appena aperto e si era fatto tanta di quella pubblicità nella zona, attraverso quei foglietti colorati, che te li ritrovavi dappertutto: nella cassetta della posta ovviamente, ma anche sotto il tergicristallo, dentro le mani all’improvviso, nella fessura della porta di casa. Ho sempre amato fare la spesa e soprattutto andare in quei supermercati giganteschi che ora chiamano ipermercati. Quello sotto casa era abbastanza grande, non come quello vicino all’uscita del raccordo, ma qui dovevo solo scendere le scale ed attraversare la strada.
A me non è mai piaciuto andare al mercato, oppure ai vari negozietti di quartiere: dal macellaio, dal fruttivendolo, e poi al forno per il pane, e al bar per il latte, quanti giri e quante chiacchiere insignificanti, rifatte mille volte. A me non piace essere riconosciuta. Non piace che mi si facciano domande personali sulla mia famiglia, su come sta quello o quell’altra e non mi interessa sentirne da altri. Non mi piace la promiscuità di quartiere.

Invece al supermercato, è tutta un’altra cosa. Lì ti lasciano in pace con il tuo carrello a girare per ore, puoi fermarti dieci minuti davanti al frigo surgelati per riflettere su quante buste di spinaci il tuo freezer sarà in grado di accogliere, tornare indietro perché hai deciso che è meglio cucinare una bella bistecca con l’osso che la solita fettina rinsecchita, fare brusche inversioni a U perché hai adocchiato all’ultimo istante un super sconto nel banco latticini, andare in retromarcia lungo lo scaffale della pasta perché un solo passaggio non è stato sufficiente a scegliere il tipo di fusilli preferito da Mimmo, impicciarti anche di quegli scaffali dove vendono cose che a te non serviranno mai, tipo pannolini, cibo per cani, acqua minerale, gassata o effervescente naturale, ripassare per la terza volta nello stesso corridoio perché non ti va di chiedere dove hanno occultato il sale grosso – chissà perché lo nascondono sempre così bene, sarà un complotto di quello fino, stanco di essere solo un derivato –, abbandonare il carrello per ritrovarlo fedele al suo posto, certa che nessuno te lo porterà via, soppesare con lo sguardo tutti i pacchi di petti di pollo per capire qual’è quello con le fette più regolari, a misura di padella e infine, mettersi in fila scegliendo la coda più lunga per avere il tempo di farsi venire in mente qualcos’altro da aggiungere nel carrello, prima che sia troppo tardi e le operazioni di cassa ti risucchino nelle loro azioni forsennate da catena di montaggio.

E poi c’è un’altra ragione per cui vado volentieri al supermercato: osservare la gente senza essere notata.

Io li guardo tutti e ormai li riconosco. Ci sono i single, che non prendono il carrello ma il cestino, poi lo riempiono troppo e si maledicono con il pacco di zucchero sotto l’ascella e il mignolo intrappolato nel retino delle patate, ci sono le famiglie, con i bambini incastrati nei carrelli, che afferrano tutto quello che è a portata di mano, ci sono le donne-manager che comprano solo cose macrobiotiche, light, dietetiche, biologiche, naturali, della fattoria, del consorzio, ed escono dal supermercato dimagrite di due taglie, poi ci sono le vere massaie, con il carrello traboccante ma così ordinato, dove tutto è al suo posto, la carne con la carne, la verdura con la verdura accanto alla frutta con la frutta e i detersivi dentro le bustine trasparenti perché non si sa mai, e poi le cose pesanti sotto e quelle leggere sopra e in cima le uova naturalmente; ci sono i pensionati, mandati dalle mogli a fare la spesa, che controllano tutti i prezzi e le offerte speciali e gli sconti della tessera a punti, per paura che una volta tornati a casa, la moglie scopra, in fondo a una busta, un pacchetto di stuzzicadenti scampato allo sconto, ci sono le ragazze giovani, appena sposate, le riconosci perché sono felici di essere lì, se ne vanno in giro ore e ore senza lista della spesa e senza un ordine nel loro giro tra i corridoi, con il sorriso stampato in faccia e la sicurezza che qualsiasi cosa compreranno sarà gradita, e poi ci sono io, o meglio, c’ero io, con il mio carrello mediamente vuoto, che seguo l’ordine della mia lista della spesa, razionalmente identico alla disposizione degli scaffali del supermercato, e mi aggiro con calma osservando cibo e varia umanità.

Nel posto dove sono adesso, c’è un terrazzo molto grande in cima, da dove riesco a vedere la città in lontananza e più vicino alcune villette a schiera, colorate di un bel rosa antico, con un minuscolo prato inglese davanti e il garage per l’automobile di famiglia sul retro. L’edificio dove mi trovo non è una villetta a schiera e neanche una villa singola: è piuttosto una grande casa rettangolare che si sviluppa in altezza. Ogni piano ha un lungo corridoio e camere a destra e a sinistra, queste ultime però sono del personale. Noi non possiamo entrare là. Possiamo solo stare nella nostra stanza o andare in quelle grandi in comune: c’è n’è una per ogni piano. Sono tutte uguali, ci trovi la televisione, i tavoli da quattro per giocare a canasta, quello piccolo con la scacchiera, il divano con le riviste e la radio accanto. La televisione è sempre accesa, anche quando non la guarda nessuno. Per andare da un piano all’altro ci sono gli ascensori, sono molto grandi, infatti una volta ci ho visto dentro un vero letto, con un signore che sembrava molto malato. Ma mi hanno fatto subito uscire, io lì non ci potevo stare. Per prendere l’ascensore devi avere un buon motivo e prima lo devi comunicare a Suor Anna, la caposala. La mia stanza è singola, con due finestre piene di prato. Anche noi abbiamo un prato, ma è di tutti e ci sono le panchine per sedersi al sole. Ma qui le usano solo i visitatori perché noi ospiti siamo quasi tutti in sedia a rotelle.
Ora che sono qui, ho tanto tempo per pensare alle cose che amavo fare, quando abitavo a casa mia.

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